Capo Finisterre


Avviene con profondo patimento la fine delle terre d’occidente
che s’ergono sospese tentando di affrontare l’insulto dell’oceano
come se nel balzare della costa forbita da afflizioni d’ogni vento
volessero lasciare all’acqua una missione, testamento dell’immobilità
steso in una miriade di insule affioranti, grumi di sangue bianco,
di essenza fatta pietra e immersa cautamente, arcipelaghi in dolose corolle
di palpebre che appaiono e scompaiono con l’onda, minatòri avamposti
a chi ritorna di notte fonda senza pensare a postume vendette della terra
massi sparsi quasi fossero lettere pesanti di malvenuto e addio,
infami munizioni di graniti ansanti nella fornace di liquida quassa,
sassàme in agone di insidie che divelle tirannide e furore al crudo flutto.
In questo lembo estremo di Galizia, ulula il faro ma non somministra
ammonimenti. Scuote solo la bruma con gridi di dolore rochi e pieni
profondi e intermittenti come un rombo, con gridi che si chiudono
nel rantolo d’un mondo consapevole di estinguersi. Qui cede la parola.
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